Il Decreto-Legge 9 settembre 2025, n.127 segna una svolta per l’istruzione secondaria italiana. Dopo anni di dibattiti e sperimentazioni, il sistema dei Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) cambia nome e prospettiva, avviando una riforma PCTO che ridefinisce obiettivi, metodi e ruolo dell’orientamento nel percorso formativo degli studenti.
Dall’anno scolastico 2025/2026, si parlerà ufficialmente di Formazione Scuola-Lavoro.
Una scelta apparentemente linguistica, ma che in realtà porta con sé un messaggio profondo: restituire senso, valore e riconoscibilità a una componente essenziale del percorso educativo.
Ma cosa cambia davvero? E come si tradurrà questa riforma nella vita quotidiana di studenti, insegnanti e scuole?
Un cambio di nome, ma non solo: la scelta pedagogica dietro la riforma
Da quando, nel 2018, il termine “alternanza scuola-lavoro” è stato sostituito con l’acronimo PCTO, molti docenti e studenti hanno percepito un progressivo allontanamento del progetto dalla sua identità originaria.
Le sigle, si sa, tendono a burocratizzare ciò che dovrebbe invece ispirare. E quella sigla — PCTO — per quanto corretta e coerente con il linguaggio tecnico dell’istruzione, non comunicava più la sostanza dell’esperienza.

Con la nuova “Formazione Scuola-Lavoro”, il Ministero dell’Istruzione e del Merito dichiara apertamente l’intenzione di ricucire il legame educativo tra mondo della scuola e mondo professionale.
La relazione tecnica allegata al decreto spiega che l’obiettivo è “restituire ai percorsi una piena dignità educativa e comunicativa, capace di esprimere chiaramente la loro funzione formativa”.
In altre parole, riportare l’attenzione su ciò che conta davvero: la crescita umana e professionale degli studenti.
Questa non è solo una questione di parole. È una scelta culturale e pedagogica, perché la formazione scuola-lavoro si fonda su un principio ormai irrinunciabile: preparare le nuove generazioni non solo a conoscere, ma a saper fare, saper essere e saper scegliere.
Cosa resta invariato: struttura e finalità
Sul piano pratico, la riforma non introduce modifiche sostanziali ai contenuti o agli obblighi già previsti per i PCTO.
Restano fermi:
- il monte ore obbligatorio (90 ore per i licei, 150 per gli istituti tecnici e 210 per i professionali);
- la finalità orientativa e di sviluppo delle competenze trasversali;
- la necessità di integrare l’esperienza nel curricolo scolastico;
- la validità delle convenzioni già in essere tra scuole, aziende, enti e istituzioni.
Il nuovo nome non stravolge la struttura, ma vuole riaccendere il senso di appartenenza e il valore formativo di un’esperienza che, negli anni, si è spesso ridotta a una formalità amministrativa.
Molte scuole, soprattutto dopo la pandemia, avevano faticato a ripristinare percorsi di qualità. Spesso le esperienze si limitavano a brevi stage osservativi o a corsi online privi di reale coinvolgimento.
Il decreto, invece, punta a rilanciare un’idea forte: quella di un ponte tra conoscenza e competenza, tra scuola e futuro.
Perché “formazione scuola-lavoro” è una scelta di comunicazione intelligente
Dietro la nuova denominazione si nasconde anche una precisa strategia comunicativa.
Negli ultimi anni, molti genitori e studenti avevano associato i PCTO a episodi negativi, disorganizzazione o mancanza di sicurezza. Il termine stesso era diventato oggetto di controversie e polemiche.
Sostituirlo con “Formazione Scuola-Lavoro” serve a ricostruire fiducia e riconoscibilità.

La parola “formazione” restituisce dignità educativa, mentre “scuola-lavoro” richiama con immediatezza la collaborazione concreta tra istituzioni scolastiche e mondo produttivo.
È un ritorno all’essenza originaria dell’alternanza, ma con un linguaggio aggiornato e più aderente alla sensibilità contemporanea.
Perché in un’epoca in cui il linguaggio orienta la percezione pubblica, cambiare nome può significare cambiare prospettiva.
Un’operazione “a costo zero” ma dal grande valore simbolico
La relazione tecnica chiarisce che la riforma non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Non ci sono stanziamenti aggiuntivi, né modifiche ai meccanismi di rendicontazione.
Tuttavia, il valore dell’intervento è tutt’altro che simbolico: rappresenta un atto di riconoscimento istituzionale di quanto questi percorsi possano incidere sulla formazione personale e professionale dei giovani.
Il vero investimento, dunque, non è economico ma pedagogico: l’obiettivo è migliorare la qualità e la percezione sociale dell’esperienza, promuovendo progetti autenticamente formativi e ben progettati.
Il collegamento con la riforma dell’esame di maturità
Il nuovo impianto normativo si inserisce in un processo più ampio di revisione dell’esame di Stato.
Le esperienze di Formazione Scuola-Lavoro, infatti, verranno valorizzate come parte integrante del curriculum dello studente, diventando elemento di valutazione delle competenze acquisite.
Non più, quindi, un “appendice” facoltativa, ma un pilastro del percorso formativo complessivo.

Il decreto intende rafforzare la visione di una scuola capace di coniugare teoria e pratica, conoscenze e competenze, scuola e società.
Un modello che non si limita a trasmettere nozioni, ma che prepara cittadini consapevoli e lavoratori flessibili, capaci di leggere la complessità del mondo contemporaneo.
Il ruolo dei docenti: da tutor a mentor
Uno dei punti più delicati della riforma riguarda il ruolo dei docenti.
Nella nuova “Formazione Scuola-Lavoro” si prevede una maggiore valorizzazione della figura del tutor scolastico, chiamato non solo a coordinare i percorsi, ma a guidare lo studente nella riflessione sulle competenze acquisite.
Il tutor diventa un mentore, un punto di riferimento educativo in grado di aiutare i ragazzi a comprendere il significato dell’esperienza, a leggere ciò che imparano e a collegarlo al proprio progetto di vita.
Questo implica una maggiore formazione del personale docente, ma anche una rinnovata alleanza con le famiglie e con il territorio.
L’obiettivo è rendere ogni percorso non un adempimento burocratico, ma un’esperienza che lasci un segno nella crescita personale degli studenti.
Il decreto ribadisce la necessità di coinvolgere tutti gli attori del territorio: imprese, enti locali, università, associazioni, cooperative e pubbliche amministrazioni.
La Formazione Scuola-Lavoro vuole essere un progetto condiviso di comunità educativa allargata.
Non più un’esperienza calata dall’alto, ma una rete viva, radicata nei bisogni del territorio e orientata al futuro.

Le scuole saranno invitate a sviluppare partenariati stabili e di qualità, promuovendo convenzioni pluriennali e progetti integrati con le strategie di sviluppo locale.
In questo senso, la riforma si collega anche agli obiettivi del PNRR, che puntano alla modernizzazione del sistema educativo e al rafforzamento dei rapporti scuola-impresa.
L’intervento non nasce in isolamento.
Come ricordato nel decreto, la riforma si allinea alle dichiarazioni dei Ministri dell’Istruzione del G7 di Trieste (2024), che hanno ribadito il ruolo strategico della scuola nella preparazione dei giovani al mondo del lavoro.
In tutti i Paesi avanzati si osserva una convergenza verso modelli formativi duali, capaci di integrare apprendimento teorico e pratico.
Germania, Austria e Svizzera rappresentano da anni esempi virtuosi di questa integrazione, con sistemi di formazione professionale che garantiscono alti tassi di occupazione giovanile.
L’Italia, con la nuova Formazione Scuola-Lavoro, sembra voler recuperare terreno, senza rinunciare alla propria identità culturale e pedagogica.
Opportunità e criticità: le sfide per le scuole
Come ogni riforma, anche questa pone nuove sfide operative.
Se da un lato il cambio di denominazione può facilitare la comunicazione e migliorare la percezione pubblica, dall’altro resta la necessità di rendere i percorsi realmente efficaci.

Le scuole dovranno investire su:
- progettazione personalizzata, per valorizzare i talenti individuali;
- monitoraggio e valutazione, per misurare l’impatto reale sui ragazzi;
- sicurezza e tutela, per evitare rischi e garantire ambienti protetti;
- formazione dei docenti e dei referenti PCTO;
- digitalizzazione dei processi, per semplificare la gestione e la tracciabilità delle esperienze.
La qualità non si improvvisa. Richiede tempo, risorse e una visione condivisa.
Ed è proprio qui che la nuova terminologia potrà giocare un ruolo decisivo: parlare di “formazione” implica un impegno formativo vero, non una formalità.
L’orizzonte dell’orientamento: guidare, non solo inserire
Un aspetto cruciale della riforma è il rafforzamento della dimensione orientativa.
L’obiettivo non è semplicemente far “sperimentare” il mondo del lavoro, ma aiutare gli studenti a conoscersi, a scoprire i propri interessi, a costruire un progetto personale di crescita.
L’esperienza di formazione scuola-lavoro deve diventare un’occasione di consapevolezza, non solo di contatto con il mondo produttivo.
Molte scuole stanno già introducendo strumenti innovativi, come il bilancio delle competenze, il diario di bordo riflessivo, o l’uso di piattaforme digitali per documentare i progressi.
L’obiettivo è spostare l’attenzione dal “fare” al “imparare facendo”, una differenza che trasforma l’esperienza da episodica a educativa.
Il PCTO internazionale: una nuova frontiera per l’apprendimento
In questo nuovo scenario, si apre anche una prospettiva interessante: quella della Formazione Scuola-Lavoro internazionale.
Negli ultimi anni, sempre più istituti hanno scelto di integrare nei propri percorsi di PCTO esperienze di studio, tirocinio o volontariato all’estero, spesso in collaborazione con agenzie educative specializzate.
Queste esperienze non solo potenziano le competenze linguistiche, ma offrono ai ragazzi la possibilità di vivere contesti multiculturali, di comprendere le dinamiche del lavoro globale e di maturare una visione più aperta del futuro.

L’internazionalizzazione dei percorsi scuola-lavoro è perfettamente coerente con la nuova impostazione: la formazione non è confinata tra le mura scolastiche, ma si apre al mondo.
Un esempio concreto? I programmi di Stage linguistici e PCTO all’estero organizzati durante l’estate, dove gli studenti possono abbinare un corso di lingua in Inghilterra, Irlanda o Malta con attività pratiche di teamwork, project management o hospitality training.
Queste esperienze, oggi, trovano nuovo riconoscimento normativo proprio grazie alla riforma: non più “attività extra”, ma parte integrante del percorso di Formazione Scuola-Lavoro.
Il coinvolgimento delle famiglie
Un aspetto spesso trascurato nei PCTO è il coinvolgimento delle famiglie.
Il nuovo decreto, invece, enfatizza la necessità di una comunicazione chiara e condivisa con i genitori, che devono essere informati, coinvolti e rassicurati sui valori educativi dell’esperienza.
La trasparenza diventa un principio chiave: i genitori non devono percepire i percorsi scuola-lavoro come una “dispersione di tempo”, ma come una parte qualificante del percorso di crescita dei figli.
Verso una nuova cultura dell’apprendimento attivo
In fondo, la Formazione Scuola-Lavoro rilancia una visione antica e moderna allo stesso tempo: imparare facendo, come sostenevano Dewey e Montessori.
Il sapere non è solo trasmissione, ma costruzione.

L’aula si dilata, diventa laboratorio, impresa, bottega, redazione, azienda, centro culturale.
È un’idea di scuola che non teme il confronto con la realtà, ma la accoglie come parte del proprio processo educativo.
Perché ogni studente, per crescere, ha bisogno di toccare con mano ciò che studia.
E ogni scuola, per essere viva, deve saper dialogare con il mondo che la circonda.
Conclusioni: il nome giusto per un’idea antica
Forse, alla fine, questa riforma è davvero una questione di linguaggio.
Ma le parole — quando sono scelte bene — sanno cambiare la realtà.
“Formazione Scuola-Lavoro” è una definizione più limpida, più onesta, più accessibile.
Dice cosa si fa, con chi, e perché.
Rimette al centro la formazione integrale della persona e ricorda che scuola e lavoro non sono mondi separati, ma due facce della stessa crescita.
Ora la sfida è nelle mani delle scuole: tradurre questa rinnovata dignità terminologica in qualità reale dei percorsi, in progetti vivi, inclusivi, aperti all’innovazione e all’internazionalità.
Perché formare non significa solo insegnare, ma accompagnare verso il futuro.
E questo, più che un cambio di nome, è un cambio di paradigma.